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Il Robin Hood di Wu Ming 4: la vera storia della banda Hood



«La storia di Robin Hood è la storia di una leggenda», così incomincia l’affascinante studio del britannico James C. Holt su Robin Hood e Wu Ming 4 in La vera storia della banda Hood, edito da Bompiani in aprile, come per ogni leggenda che si rispetti, ne dà la sua personale versione narrativa.


Personalmente il libro mi ha subito incuriosito:

Da un lato per la simpatia verso Wu Ming 4: la sua passione per Tolkien (in proposito consiglio Difendere la terra di mezzo, Bompiani 2013); la precedente – apprezzata – lettura di Q che all’epoca il gruppo Wu Ming firmava con lo pseudonimo Luther Blissett; infine perché in generale trovo stimolante – sebbene alcuni lo bollino come snobismo – l’idea di un collettivo che si firma senza nome (perché il nome è solo un nome) e non si fa vedere telematicamente (una protesta social?), ma che di converso non tenga nascosta la propria identità (i nomi dei componenti del gruppo Wu Ming sono noti e ogni componente ha un numero per differenziarsi) e che a conferenze o presentazioni pubbliche gli autori vengano tranquillamente senza alcuna maschera.



Da un secondo punto di vista perché ho un conto aperto con Robin Hood da anni: in primo luogo perché il libro di Holt fu uno dei primi romanzi di analisi storica che lessi, mi fu regalato da mio zio un Natale insieme a Il mito della tavola Rotonda di Norma Lorre Goodrich; secondariamente perché era il mio cartone animato della Disney preferito (al punto che dovettero comprarmi ben due cassette perché una si ruppe per l’usura); in terza battuta perché il Robin di Locksley, aristocratica versione di Robin Hood, interpretata da Kevin Costner è stato evidentemente la naturale prosecuzione adolescenziale della passione giovanile per il Robin Hood volpe e il Little John orso (avete mai provato a sentire il film di Reynolds in lingua originale? Spero di no, Robin Hood che parla in americano fa un certo effetto).


Wu Ming 4 nota che non tutte le leggende vivono allo stesso modo, con lo stesso successo e la stessa longevità, così – un po' come fa Holt –  cerca di considerare l’aspetto storico, quello leggendario-folkloristico e quello di storia della letteratura per dare una sua versione dei fondamenti della leggenda.


Sin da subito vorrei sottolineare che la cosa che maggiormente mi ha colpito è lo spazio che viene dato alla dimensione narrativa della vicenda, poco considerata nelle versioni cinematografiche, alle storie di cui gli uomini sono fatti, che sedimentano nella cultura e che via via plasmano delle identità personali, sociali e culturali. Insomma, viene dato risalto alla leggenda: la base è una banda di fuorilegge, la banda Hood, ma le storie che nascono intorno ad essa creano qualcosa di diverso e per certi versi superiore al sostrato reale; storie che vengono raccontate, per motivi diversi, dalla stessa banda, da esterni imparziali (il popolo) e persino dagli antagonisti (Guy di Gisborne). La cosa veramente stupefacente però è che le storie che creano la leggenda nascono da una storia, del tutto differente, che un menestrello (il Cantagallo della situazione) racconta proprio alla banda Hood. Una circolarità creativa della narratività umana.



Accanto a queste riflessioni che chiamerei immaginifiche, ma in molti dispregiativamente le chiamano filosofiche, si articola un avvincente romanzo storico – il classico non sappiamo se sia andata così, ma potrebbe – dove la scrittura è cruda, semplice, diretta e la trama appassionante e godibile.


Proprio questo annodamento tra trama cruda e scrittura tagliente ci tuffa in un Medioevo “reale” che è tutt’altro che leggendario e sognante: il testo si apre con l’assedio degli Ebrei nella torre di York e curiosamente si chiude anche con un assedio del Cuor di Leone di ritorno dalla Terra Santa; inutile dire che gli ebrei sono ammazzati a bastonate e bruciati vivi (per questione di soldi più che di fede) e i traditori del re ridotti alla morte per fame in catene, ma allietati da acqua a volontà per prolungare il tempo di “riflessione”.


Questo è il Medioevo: un’epoca senz’altro di grandi innovazioni e di grande crescita dell’umanità, ma accompagnata da una violenza e da una lotta per la sopravvivenza impensabili per noi uomini contemporanei. Spesso nelle versioni epiche o nelle reinterpretazioni posteriori ce ne dimentichiamo, Wu Ming 4 invece seguendo un’interpretazione per certi versi storicistica articola la sua trama con queste fosche tinte.


Proseguendo in questo senso, la banda Hood è una banda di fuorilegge: punto e a capo. Certo anche i fuorilegge hanno le loro ragioni e quando le condizioni del benessere erano molto basse, il confine tra legge e giustizia era assai labile, vista la posta in gioco: la sopravvivenza. Il presunto capo della banda, se mai fosse Robin Hood, di certo non è un principe dei ladri – come era definito Kevin Costner –  o un crociato di ritorno dalla terra santa come nell’adattamento con Russel Crowe, ma come sembra più probabile uno yeomen: un uomo sì libero, ma non aristocratico.


In realtà il capo della banda Hood, che sia yeomen o Lord, per Wu Ming 4 non è nemmeno Robin Hood, ma Little John. Qui assistiamo ad un altro originale gioco dell’autore, che ribalta e stravolge i personaggi che noi abbiamo già catalogato nel nostro immaginario collettivo: Little John non è un padre di famiglia, un evasore fiscale o una fedele spalla del protagonista, ma un carismatico cacciatore di frodo che per necessità diventa il capo della banda Hood. E Robin Hood? Robin Hood neanche c’è, o meglio c’è… se crediamo agli spiriti… Inoltre, a ben vedere, né Little John né Robin Hood sono i protagonisti di questo libro, bensì Guy di Gisborne; difficile da credere perché è sempre stato dipinto come il cugino sbruffone e inetto dello sceriffo di Nottingham.


In una delle ballate che sono giunte a noi effettivamente si cita uno scontro tra Robin e Gisborne in qualità di scagnozzo dello Sceriffo, e anche qui in un senso inconsueto lo è, ma Gisborne è un personaggio complesso e spiazzante: è lui il crociato, anche se non è affatto santo; è lui che combatte con la spada – mentre la banda Hood combatte con le armi del popolo: arco e ascia – ; è lui il cavaliere, ma sono più nobili i fuorilegge; è lui la volpe della situazione non il Robin Hood della Disney.


Probabilmente è il personaggio meglio riuscito del testo, non tanto perché gli altri non lo siano, ma perché sconvolge e per le prime pagine infastidisce; infastidisce perché non è l’uomo del Medioevo che noi ci immaginiamo: non è il Parsifal alla ricerca del Graal o l’errante protettore di damigelle contro i draghi, è un personaggio che ci aspetteremmo nel Il Principe di Macchiavelli, in un film di indiana Jones a fare il doppio o triplo gioco, uno che «I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra e io nel mezzo…»


Accanto a questo “crudo e reale” Medioevo il lettore paziente osserverà che nella trama si sprecano però fini ideali e archetipi letterari, per esempio la dicotomia bosco-città o villaggi limitrofi: nella foresta la vita è regolata da storie, in città sono le logiche di potere che la fanno da padrone; nel bosco si caccia di frodo per sopravvivere, in città si ratifica un diritto leso e i bracconieri vanno puniti con il contrappasso di venire cacciati come prede; in città vige il principio della logica, nella foresta c’è spazio per la magia e gli spirti (Robin Hood nella tradizione non è anche lo spirito del bosco? The Green Man); infine in città o si è cristiani o non lo si è, nel bosco si possono fare riti pagani ma donando alla Vergine Maria.


Esiste quindi il mondo della realtà e il mondo incantato dove le fronde degli alberi sospendono o alterano il principio di realtà, eppure i due mondi comunicano e, ancora una volta, attraverso topos letterari: gli intermediari, del resto anche Caronte era un essere sospeso tra due mondi.


Un primo intermediario è il guardiacaccia, che Wu Ming 4 genialmente descrive con le fattezze di solito attribuite a Robin Hood (del resto un bracconiere con chi può scontrarsi ed eventualmente a chi rubare materiale pregiato e utile nei boschi?), un essere che lavora e prendere ordini dalla città, ma che come interessi e come caratteristiche appartiene alla foresta; eventualmente apprezza gli agi e il soldo che viene dalla città, ma proprio come il Lord non si sporca con il fango della foresta il guardiacaccia non si sente cittadino e preferisce la caccia, i cani e le bestie del bosco, perché in fin dei conti ama di più la foresta.


In seconda battuta abbiamo la figura dei monaci e delle monache che, per definizione, vivono tra due mondi: in quello reale e in quello spirituale, mantenendoli distinti ma interconnessi attraverso le preghiere nei loro monasteri segregati, ma non completamente isolati. Eppure, ancora l’ironia, a differenza del citato dalla ballata Fra Tuck, non sono mai un esempio o attori edificanti nel libro.


In terzo luogo il menestrello, il cantore, che è un uomo di corte, ma che vive di storie e di spostamenti tra castelli: viaggia tra i mondi arricchendoli entrambi attraverso il veicolo della parola; storia e leggenda unite nelle grandi narrazioni.


In conclusione, la vera storia della banda Hood è un godibilissimo romanzo storico che dovrebbe parlare del mito di Robin Hood ma in realtà parla anche di molto altro. Oltre a quanto già espresso, un altro grande apprezzamento mi sento di farlo per la volontà di uscire da l’interpretazione banale che vede il fascino e l’eterno successo di Robin Hood in un bieco e becero giustizialismo sociale: no, Robin Hood non è un grande perché dà al povero per togliere al ricco (chi è ricco? e chi è povero? E in base a cosa lo potrebbe fare?), non è un precursore della disobbedienza civile quando le tasse sono ingiuste, non è un fedele servitore di Riccardo Cuor di Leone che si oppone al sadico fratello Giovanni senza terra.


La leggenda di Robin Hood nasce probabilmente da una storia semplice, forse di opportunismo, in un mondo dove la vita era tendenzialmente più brutale (di oggi), dove la religione e le crociate potevano essere viste come cose sante o come l’ennesima guerra e gioco di potere (come oggi), nasce da una trama dove non esistono buoni o cattivi ma dove ognuno ha le sue ragioni, eppure da questa semplicità nasce una leggenda…perché? Probabilmente per molti motivi, ma sicuramente perché sono state cantate storie introno a una vicenda e le storie hanno generato altre storie, quindi, forse, la leggenda di Robin Hood, come questo libro, non è che un altro modo per parlare della potenza delle storie nel mondo reale.


Nota per Tolkeniani


Si può chiamare caso o coincidenza, ma visto il rispetto di Wu Ming 4 per Tolkien e la capacità del professore di ispirare, forse è meglio chiamarli tributi:

·       C’è una gara di indovinelli dove il premio per la vittoria è poter scappare…

·       En passant c’è un Troll pietrificato…

·       C’è un barcaiolo che da sempre traghetta i viaggiatori lungo il fiume che costeggia la foresta che si chiama Tom e la strana moglie sembra una ninfa…

·       C’è una arrampicata disperata sopra un albero che mostra la luce sopra l’ombra della foresta, forse in cima ci sono anche farfalle?

·       Una compagnia di ragazzi, alcuni molto piccoli, in un fitto e oscuro bosco con grandi alberi che sembrano avere vita propria…


Chissà quanti altri ne avrà inseriti…






Se Folco de Lamberti al posto che imbarcarsi per la seconda crociata avesse preso parte alla terza, avrebbe probabilmente combattuto con Riccardo Cuor di Leone ad Acri. Se ti interessa sapere come è andato il viaggio di Folco in terra santa, dopo La congiura delle torri, questo mese uscirà il secondo romanzo storico, L’alba delle torri, della trilogia delle torri di Francesco Fadigati.



Alla Prossima

Strider



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